giovedì 16 febbraio 2017

Dieselgate Volkswagen - Ferdinand Piech il patriarca di casa Volkswagen dice tutto


Lo storico patriarca della casa automobilistica davanti ai magistrati ha sostenuto che i massimi dirigenti della società fossero a conoscenza della manipolazione delle emissioni, coinvolgendo di fatto anche l'odiato cugino Wolfgang Porsche. L'ultimo atto di una rivalità lunga almeno 50 anni: due capi famiglia che ancora oggi non si chiamano nemmeno per nome.
BERLINO - Sono i Montecchi e i Capuleti del capitalismo tedesco e non riescono a smettere di farsi la guerra neanche nel momento più tragico della loro storia. L’odio antico tra le due grandi famiglie dell’industria dell'auto tedesca, i Piëch e i Porsche, è scoppiato di nuovo in queste ore. Il vecchio patriarca della Volkswagen, Ferdinand Piëch ha sguainato la spada e sta tagliando la testa a tutti. Davanti ai magistrati, nei giorni scorsi, ha dichiarato che i vertici della Volkswagen sapevano tutti delle emissioni manipolate, ben prima dello scoppiare dello scandalo. Le sue affermazioni potrebbero far crollare la tesi principale del colosso di Wolfsburg, quella che i top manager e i proprietari fossero venuti a conoscenza della truffa nell’autunno del 2015. E rischiano di mettere un cappio al collo all’intero consiglio di sorveglianza. Dove siede anche l’odiato cugino, Wolfgang Porsche.
I Piëch e i Porsche, discendenti di Ferdinand Porsche, il geniale inventore del maggiolino ma anche della “macchina del popolo” tanto amata da Hitler, hanno trasformato l’azienda nel maggiore colosso automobilistico del mondo senza mai smettere di tramare l’uno contro l’altro, di riempire i rotocalchi di aneddoti sulle loro faide, di sorprendere la sobria Germania con le loro eccentricità.
Wolfgang neanche nomina Ferdinand per nome, lo chiama “mio cugino” o “F.” o “il nome che non pronuncerò”. L’innominato, dal canto suo, ama prendere il giro il ramo nemico per la frequentazione delle Waldorf Schulen, le scuole sterineriane dove i parenti, secondo lui, avrebbero imparato a “fare lavori manuali, l’uncinetto e a cantare” mentre lui avrebbe frequentato “un liceo per diventare tosti”.
I due clan si insultano da sempre come “contro-famiglia” (Piëch sui Porsche) o “il ramo senza nome” (Porsche sui Piëch). E la guerra è talmente antica da risalire ai figli del fondatore, Ferry e Louise.
Le cronache narrano di diverbi ferocissimi, anche fisici, tra i due. Louise ha poi sposato Anton Piëch, che ha costruito lo stabilimento Volkswagen a Wolfsburg, a tutt’oggi il quartier generale del colosso. Suo fratello Ferry si è dedicato alle macchine da corsa e ha sviluppato, tra le altre, la mitica Porsche 911.
Quando Ferry e Louise Porsche cominciarono negli anni ’70 a suddividere l’impero tra gli otto nipoti, le guerre tra di loro (e il giovane Ferdinand, all’epoca capo sviluppatore della Porsche, si distinse subito per gli scontri frontali con il cugino Hans-Peter) raggiunsero un livello tale da richiedere un intervento esterno. La famiglia decise di tentare una terapia di gruppo. In Austria, nella loro villa Schüttgut, si sottoposero a lunghe sedute che nei ricordi di Ferdinand furono litigiosissime. Alla fine, tuttavia, raggiunsero una tregua e presero una decisione che vale ad oggi. Nessun membro della famiglia avrebbe più potuto assumere un ruolo ai vertici della Porsche.
I due capi-tribù, però, trovarono comunque il modo di continuare a guerreggiare e a occupare i vertici delle controllate come Audi o, molto più tardi della casa madre Volkswagen. Peraltro, quando VW ha inglobato Porsche, quello che è sembrato l’assorbimento del marchio delle macchine da corsa da parte del produttore delle Golf, si è rivelata invece l’Opa delle due famiglie sul colosso di Wolfsburg. La holding di famiglia Porsche SA ne controlla il 50,7%.
Nella saga dei super-ego, come la chiamano i tedeschi, anche gli amministratori delegati sono diventati carne da macello. Noto per essere un maniaco dei dettagli e della qualità, Ferdinand Porsche ama liquidare i top manager con una sola, affilata frase, buttata in pasto alla stampa al momento giusto. Il patriarca del colosso di Wolfsburg è anche famoso per divorare le sue creature come Saturno. L’esempio più recente è proprio l’amministratore delegato dello scandalo, Martin Winterkorn. Peraltro, la tesi di un complotto di oscuri ingegneri del middle management che avrebbero manipolato undici milioni di motori è incredibile, ma è tuttora quella ufficiale di Wolfsburg.
Prima di cadere per le emissioni manipolate, Winterkorn aveva già subito un brutale tentativo di defenestrazione da parte del suo mentore. Per decenni Piëch era stato il king maker dell’uomo che ha battuto i giapponesi della Toyota trasformando il brand dai dodici marchi - tra cui Lamborghini, Audi, Seat, Skoda, Porsche - nel maggiore gruppo automobilistico del mondo. Per molti anni Winterkorn gli fu sempre a fianco, anche nei momenti del “pollice verso” verso altri top manager. Nel 2008, ad esempio, i due andarono a presentare la nuova Polo in Sardegna. I giornalisti chiesero a Piëch dell’amministratore delegato di Porsche, Wendelin Wiedeking. Lui rispose che “Il signor Wiedeking gode ancora della mia fiducia. Cancellate ‘ancora’”. Era il segnale. Anche se il cugino Wolfgang si oppose, il top manager era morto: si dimise poco dopo.
Nella primavera del 2015, Piëch tentò un colpo simile con Winterkorn. Stando alle indiscrezioni, perché era insoddisfatto dei risultati raggiunti sul mercato statunitense. Col senno di poi - e con le dichiarazioni di questi giorni ai magistrati - quel tentativo sta assumendo un significato diverso. Secondo i rumors, Winterkorn sarebbe stato informato sulle indagini degli americani già a febbraio. E avrebbe deciso di non reagire. Il 10 aprile Piëch fece l’ormai famosissima telefonata allo Spiegel e pronunciò le sei parole che avrebbero dovuto bruciare il capo di VW: “Prendo le distanze da Winterkorn”. Un caso?
Quella mossa, per la prima volta nella lunga carriera di Piëch, andò storto. Il cugino Wolfgang Porsche e il resto del consiglio si strinsero attorno al top manager e lo salvarono, anche se per pochi mesi. Il patriarca, invece, fu costretto a lasciare la guida del Consiglio di sorveglianza. I giornali titolarono con frasi pompose, “fine di un’era”, fioccarono i commenti sulla fine di un mito. Ma dalle cronache di questi giorni è evidente che non se n’è andato a mani vuote.
Nel secolo delle auto, l’unico elemento che è sempre riuscito a far rinsavire i due capi tribù di Porsche e Piëch, è stato il timore di perdere il controllo dell’azienda. Ne sa qualcosa il fratello maggiore di Ferdinand, Ernst Piëch: all’inizio degli anni ’80 minacciò di vendere le sue quote agli arabi. Le due famiglie fecero fronte comune e lo accompagnarono alla porta liquidandolo con 100 milioni di marchi. Oggi quelle quote valgono miliardi.


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