mercoledì 30 novembre 2016

Nino D'Angelo: ho fatto quello che voleva il Cuore


Memorie di Nino D'Angelo : «Mio padre mi voleva ‘scarparo’. Io lasciai il vicolo».
Un vicolo cieco di San Pietro a Patierno. Senza uscita come sembrava all’inizio la vita di un ragazzino magrissimo sotto una cascata di capelli biondi. Anzi un caschetto che diventerà icona popolare. Nino D’Angelo nacque lì, periferia nordorientale di Napoli, e da lì riparte «Io… senza giacca e cravatta», una sorta di memoires in scena dal 2 dicembre al Trianon, in apertura della stagione del teatro di Forcella che finalmente viene restituito alla città. Un D’Angelo al quadrato visto che da agosto è tornato per la seconda volta a dirigere la storica sala.
Ma non dovevate riaprire con «Zappatore», in omaggio a Mario Merola?
«Sì, però non ce l’abbiamo fatta per il decennale della scomparsa. Lo spettacolo sarà in scena dal 4 gennaio con il figlio Francesco. Mario? Figuriamoci, è stato il mio primo maestro. Pensi che mi chiamavano l’erede di Merola. Ma a me questa cosa non è che mi piaceva tanto. Cioè da una parte ero onorato perché anche io ho iniziato con la sceneggiata, dall’altra ebbi un’intuizione: qua se faccio l’erede sarò sempre secondo. E io volevo essere primo, vincere. Così innovai anche la sceneggiata, inserendo oltre a isso essa e ‘o malamente pure temi come la disoccupazione. Erano gli anni delle canzoni di malavita, vere hit che, diciamolo, hanno anticipato il successo di Gomorra. Ma io scelsi di cantare l’amore, una specie di sceneggiata al tempo delle mele. Lo ricorda il film?».
Da «Nu jeans e ‘na maglietta» a «Senza giacca e cravatta». Qual è l’abito di questo nuovo spettacolo?
«Mi vesto di ricordi. Arriva un momento nella vita in cui non devi dimostrare più niente a nessuno: è allora che puoi andare indietro con la memoria. Io lo feci una notte di qualche anno fa. Lucio Dalla mi chiese di accompagnarlo a San Pietro a Patierno, voleva vedere la casa dove sono nato. Arrivammo là e fu un trauma: la casa non c’era più. C’era solo ‘o vico, vicolo ‘o Pizzo Casale che non portava da nessuna parte. Era pieno di calzolai e la massima ambizione per un ragazzino era diventare un grande scarparo. Mio padre quello desiderava per me. Non so come ho fatto, ma le uniche scarpe che ho voluto vedere sono state quelle che mi hanno portato via da là. Oggi invece quel vicolo lo porto fisicamente in scena».
Vedremo un’autobiografia musicale?
«Sì, ma non proprio cronologica: di fronte al vuoto della casa abbattuta, ripesco dalla memorie vecchie foto, gli anni Sessanta, la vita di allora con mia madre e mio padre. Ma parto da un trucco teatrale perché c’è anche drammaturgia. Siamo alla prova generale di uno spettacolo... In scena, oltre al vicolo c’è anche il mio camerino. Come dire: da dove sono partito e dove sono arrivato. Mentre in Nu jeans e na maglietta c’era ancora il caschetto d’oro, qui è il Nino D’angelo di oggi a raccontare. E lo fa attraverso le sue passioni: Viviani, Sergio Bruni e Pino Daniele».
Nino, una doppia vittoria: riaprire il Trianon e farlo con una pièce sua.
«Sì, ma vincere solo per sé che senso ha? Da poco è nato il mio terzo nipote, dirigo il teatro, magari farò una nuova tournée: sono felice, però questo non deve servire solo a me. Il mio successo è una speranza per tutti i giovani che stanno in un vicolo cieco come il mio. L’uscita c’è, pare assurdo, ma sono i sogni».

Nessun commento:

Posta un commento